"The Ugly One"





Sergio (non) incontra King Stitt





Il sole è abbagliante, a Kingston come nel resto di questi affollatissimi Caraibi.

La mattinata comincia, per il nostro terzetto, "presto", tra virgolette, perché è un’affermazione relativa alle condizioni in cui eravamo andati a letto quella stessa mattina. Io, Marco Carloni il fotografo ed il "Pizza", al secolo Lorenzo Pizzarotti.

Robert, il nostro driver, simpatico e raro esempio di lealtà, passa a prenderci con la canonica ora e mezza di ritardo giamaicano, sono appena-appena le ore 12 e 45 quando suona alla porta della nostra abitazione temporanea decisamente diversa dalla "best accomodation available" decantata dalla pubblicità: il Sutton Place Hotel, al n.° 11 di Ruthven Road

Scopo del primo tour di Kingston Town: andare a vedere Studio One in Brentford Rd. ed il negozio di Prince Buster in Orange Street ("Orange Street, IS MY STREET!").

Geograficamente, ci spostiamo alle spalle del quartiere dov’è il nostro albergo, ovvero New Kingston, il quartiere contraddistinto dal numero 10, e non è un lungo tratto di strada quello che percorriamo quando "le quinte" entro le quali impersoniamo noi stessi, cambiano rapidamente, passando da un degrado medio-circoscritto ad uno sempre meno controllabile; ci sono strade larghe, polverose e con voragini. Le abitazioni che vediamo scorrere, come dei video, nei nostri finestrini aperti, se non sono baracche o abbandonate, hanno doppi giri di cancellate alle finestre, filo spinato sui muretti e, spesso, quello che colpisce è l’incredibile contrasto creato dalla casa, "blindata" come descritto, con la palmetta che vien fuori da un prato perfettamente curato all’inglese, e quella successiva, con il cadavere decomposto di quella che sembra essere stata un’auto, in un giardino cosparso di bottiglie di Rhum.

Ogni tanto, c’è qualcuno che vende qualcosa in improvvisati "negozi", poi ti dicono: "I run my own businnes" perché tutti, in Giamaica, fanno qualcosa, sin dall’alba; e, sinceramente, sembrano tutti piuttosto indaffarati: il signore che cammina svelto come un milanese in un completo grigio sgargiante, la parrucchiera vestita di rosa dentro il suo, anch’esso improvvisato ma con la sua brava clientela che fa ordinatamente la fila, "Beauty Saloon" dove si creano tutte le più incredibili ed affascinanti fogge di capigliature nonché i tipici dreadlocks; pure il cane randagio allungato a scrutare ed odorare dentro un bidone di immondizia è indaffarato e, conoscendo meglio l’isola, ti rendi conto che la ragione di tutto quel movimento è la stessa: riuscire, come si dice da noi, a mettere insieme il pranzo con la cena.

Sarò anche un appassionato viscerale per la musica giamaicana, ma non mi emoziono un granché trovandomi di fronte il mitico, celeberrimo, piuttosto decadente direi, STUDIO ONE. E’ il problema di noi che siamo appassionati di qualcosa ma che non riusciamo a trascendere mai nel feticismo.

Marco mi chiede cosa si fa, Lorenzo mi chiede cosa si fa e pure Robert, girandosi verso di me che stavo seduto nell’auto di idetro, mi dice: "So?"

Ho capito, sono io quello di SkabadiP, no? Scendo dalla vettura rigorosamente giapponese e, non vedendo campanelli, ululo nella speranza di veder venirmi incontro qualcuno " Is there anybody inside?" e, guarda un po’, qualcuno arriva.

Nella fattispecie si tratta di un anziano e basso personaggio dalla faccia particolarmente incartapecorita del quale, a primo acchito, non capisco una sola parola. Rapido, interviene il solerte Robert che, traducendo per noi in inglese, ci spiega che quello che sembra il custode dice che stanno registrando, nello Studio One, e non è possibile entrare.

‘Azzo, ragazzi, che sfiga! Ho, però, l’asso nella manica per mettere a frutto lo stesso un viaggetto in una zona definita da Robert "Not a good place" e chiedo se quella lì, a sinistra di dove eravamo, è la casa del dj King Stitt. L’omino dello Studio One che era rimasto dietro la cancellata con la faccia che, sotto il sole cocente dello zenit in mezzo all’oceano Atlantico, sembrava ancora più incartapecorita di quel che in effetti fosse, mi fa cenno di si e, datoci le spalle, se ne torna da dove era venuto parlando da solo.

Casa di King Stitt

Dopo un paio di "Excuse Me, Is there Mr. Stitt?", dalla casa coloniale bianca e azzurra si affaccia una signora anziana che indossa un grembiule piuttosto sdrucito ma che a vederlo mi dà l’impressione d’aver interrotto le sue faccende di casa. Ha un sorriso gentile e curioso anche se sa che tre bianchi in quei posti non possono che essere interessati a qualche faccenda inerente la musica.

Le chiedo se è in casa quello che continuo a chiamare Mr. Stitt unicamente perché non mi ricordo il nome di battesimo che, per esteso, è Winston George Sparkes. Lei, la signora di cui mi pentirò di non averle chiesto il nome, mi risponde indicandomi il decadente patio della vecchia casa dal quale sta uscendo, abbigliato con canotta annerita dal troppo uso e con qualche presa d’aria di troppo, un paio di pantaloni neri, senza cintura ed anch’essi logori, forse, quanto l’uomo che li indossa: il padrino – se non il padre – di tutti i DJ: il mitico King Stitt.

Dell’uomo famoso per la sua bruttezza devo dire che non c’è dubbio: anche a voler essere magnanimi rasenta l’obbrobrio per qualche problema ortodontico di troppo. Per chi l’ha presente dalle foto, sappia che è, addirittura, fotogenico rispetto alla realtà.

Winston Sparks, ha bisogno di appoggiarsi, ad una delle travi che sorreggono il piccolo porticato della casa per starmi ad ascoltare. No, non che fossi particolarmente noioso, era lui decisamente sbronzo. Ovviamente la metto subito sul discorsivo tendente ai salemelecchi per ingraziarmelo nella speranza di fare resuscitare l’entusiasmo del vecchio artista per dei turisti di un altro continente venuti fin lì per parlare con lui. Gli accenno alla sua collaborazione con gli Insteps in "Eleven Step To Power", alla recente sovraincisione in vecchio stile DJ della raccolta Studio One "Club 66"; gli dico di SkabadiP e dell’interesse che tuttora c’è nei suoi confronti. Lui annuisce, dissente, biascica rigirando lo sguardo altrove ed arrivando molto nettamente al punto della situazione: o gli mollo 500 dollari americani o di interviste non se ne parla neppure.

Alle sue spalle, la signora che c’era venuta incontro mi fa il gesto del bere, per palesarmi, caso mai non me ne fossi accorto dall’olezzo che lo avvolgeva, che Mr Sparks è cotto, rebonzo della droga che in Giamaica fa più vittime della coca, il Rhum. Lo fa con un gesto gentile, quasi a scusarsi delle condizioni in cui è quello che, a ‘sto punto, non può che essere suo marito o, comunque, il suo uomo. Il Pizza, con l’ironia che lo contraddistingue, mi fa notare che King Stitt, con quella roba deve darci dentro parecchio ed indicando un angolo del giardino sotto una finestra della casa.

Dal considerevole numero di bottiglie ordinatamente messe in fila nel giardino poco curato là dove aveva indicato il Pizza, mi vien da pensare che quasi tutta la sostanza di cui è fatto questo vecchio "Shouter" sia rhum ormai. E penso che tutto quell’alcool a quelle gengive deformi bene non deve fare. Lo ringrazio lo stesso, gli dico che soldi non ne abbiamo, che si trattava di poche domande e che, comunque, non ci sono problemi.

Non mi pongo nemmeno il problema di trattare con King Stitt un prezzo che ritenessi opportuno per avere una intervista (neppure in esclusiva), mi sarei depresso. E che diamine! è sempre King Stitt, perdio, un personaggio popolare di una terra che è cambiata tantissimo, anche se in peggio. Ringrazio comunque e, lasciandomi alle spalle l’alcolica dimora e dopo aver fatto un saluto alla signora dal sorriso gentile che ancora si scusava, sento la voce di Marco che mi chiede retoricamente: "Oh!, ma com’era messo?"



Gennaio 1999

A cura di Sergio Rallo

 

Foto di Marco Carloni Fotografia per SkabadiP
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